Tecniche e materiali. L’occhio del restauratore

25 Marzo 2024
– Tecniche e materiali. L’occhio del restauratore

Tecniche e materiali. L’occhio del restauratore AA. VV.

Capire l’arte conoscendo la tecnica

A cura della Dott.ssa Martina Avogadro Funzionario Restauratore ABAP Imperia-Savona

La Pittura Murale.

Introduzione

La conoscenza della materia, e quindi delle tecniche di esecuzione, costituisce il presupposto fondamentale per la corretta comprensione e conservazione di un manufatto artistico e per la trasmissione del suo messaggio nel tempo. 

Tra i tanti protagonisti che ruotano intorno al mondo dell’arte, il principale detentore di questa conoscenza è sicuramente il restauratore che, attraverso un contatto quotidiano, quasi “intimo”, con la materia, acquisisce facoltà visive e, soprattutto, percezioni tattili particolari, che gli consentono di instaurare un vero e proprio dialogo con il dipinto e con l’artista che lo ha realizzato.

Il privilegio di accarezzare un intonaco liscio e compatto, di contemplare da vicino le superfici vellutate degli affreschi consentono al restauratore di carpire i segreti del processo creativo, i pentimenti, i difetti esecutivi e tutte quelle strategie che hanno permesso all’artista di trasformare una manciata di polveri in un’opera d’arte.

L’intento di questo contributo è quello di raccontare, soprattutto ai non addetti ai lavori, tutto quello che si nasconde dietro alle immagini dipinte sui muri delle nostre chiese e dei nostri palazzi. 

Capire i materiali, i metodi di impiego, le tecniche esecutive, insomma rispondere alla domanda: “com’è fatto?”, ci permetterà di chiarirne i principali equivoci e fraintendimenti che troppo spesso portano a una scorretta lettura e comprensione dei manufatti artistici, primo tra tutti il frequente errore che porta a definire con il termine “affresco” qualunque tipologia di pittura murale. 

 

Pittura murale: tecnica e materiali

 

Il termine pittura murale indica i dipinti realizzati su muro e, per estensione, su supporto murario. 

Le principali informazioni circa le tecniche artistiche antiche, procedure e materiali, ci sono state tramandate dalle fonti e dai trattati tecnici – Eraclito, Teofilo, Cennino Cennini, Leon Battista Alberti, Vasari e molti altri- che ci hanno permesso di comprendere l’organizzazione della bottega, le ricette e i trucchi del mestiere impiegati dagli artisti. Tuttavia, è singolare notare come, approfondendo lo studio del manufatto con mezzi d’indagine scientifici i conti non tornano, e spesso si nota che, nella maggior parte dei casi, non vi è corrispondenza tra quanto teorizzato nei trattati e la pratica reale, che tende a svincolarsi da briglie determinate per adattarsi a esigenze variabili legate al tempo, al mercato, all’espressività dell’artista o alla volontà del committente.

Le tecniche di esecuzione della pittura murale sono molteplici e, solo a titolo esemplificativo, possono essere approssimativamente suddivise in tre macrocategorie: buon fresco, mezzo fresco e a secco (Botticelli, 1992, p. 13). 

Con il termine “ad affresco” o “buon fresco”, si intende una particolare procedura tecnica che prevede la stesura del colore (pigmento in polvere), diluito semplicemente in acqua, su un intonaco ancora bagnato. La calce dell’intonaco a contatto con l’aria tende a dare avvio a una reazione chimica di carbonatazione che fa sì che il colore venga inglobato all’interno del substrato stesso, dando origine a una tecnica pittorica molto stabile e durevole nel tempo. 

Nel caso della pittura ad affresco si viene così a creare un sistema di stratificazioni più o meno complesso che parte sempre da supporto murario – in pietra, mattoni, misto – sul quale vengono stesi da due a più stati d’impasto di calce e sabbia, chiamati in sequenza rinzaffo, arriccio, intonaco, con granulometrie differenti, e progressivamente più fini. L’intonaco pittorico, detto anche “velo”, è costituito da una malta molto più raffinata di quella del sottostante arriccio, e il suo spessore, tendenzialmente contenuto, non arriva quasi mai a superare il centimetro. (Mora, Philippot, 1999, pp. 13-20). (fig.1)

Dal momento che, per garantire la buona riuscita di questa tipologia di pittura, il colore deve essere steso su un intonaco ancora umido, l’ultimo strato detto intonachino veniva steso a porzioni o come viene detto in gergo tecnico a “giornate”, perché l’artista prevedeva di dipingere quella porzione di dipinto entro la giornata lavorativa, in modo che il processo di carbonatazione non fosse ancora avvenuto. In letteratura viene riportato che la stesura dell’intonachino a “giornate” si diffuse verso la fine del 1200, andandosi a sostituire progressivamente alla stesura a “pontate”, tecnica che prevedeva l’impiego di ampie porzioni di intonaco ad andamento orizzontale e di larghezza uguale a quella del ponteggio usato per il lavoro. Il passaggio dalla stesura dell’intonachino a “pontate” a quella a “giornate” sarà la conseguenza inevitabile della progressiva sperimentazione di nuove tecniche che condurranno all’elaborazione della pittura ad affresco canonica. Infatti, prima del Trecento, raramente troviamo applicato il puro procedimento dell’affresco, e ampie porzioni pittoriche erano spesso realizzate a secco o con tecnica mista. Sarà con la bottega di Giotto, nel grande cantiere di San Francesco ad Assisi, che si assisterà, a partire dalla seconda metà del Duecento, a una vera e propria rivoluzione tecnica, necessaria ad assecondare le esigenze del nuovo linguaggio figurativo oramai del tutto liberato dai vincoli della tradizione bizantina (Botticelli 2008, pp.19-20).

L’artista prima di iniziare a dipingere doveva riportare il disegno preparatorio (sinopia) sulla porzione di intonaco steso. Anche questa operazione avveniva per pezzi riportando il disegno principalmente secondo due principali tecniche: quella dello spolvero – dove il cartone preparatorio veniva bucherellato lungo i bordi del disegno, posato sulla superficie e poi tamponato con un tampone sporco di pigmento nero – o per incisione – dove il cartone dopo esser starò appoggiato sulla superficie umida veniva ricalcato con punte metalliche che lasciavano un’incisione sull’affresco stesso. Spesso poteva capitare, come poi vedremo, che entrambe le tecniche di riporto venissero impiegate nello stesso dipinto o ciclo di dipinti includendo anche la tecnica della quadrettatura delle superfici. 

Il buon fresco permetteva l’impiego soltanto di pigmenti di natura minerale, fatto che giustifica la limitatezza della sua gamma cromatica. Anticamente le polveri venivano preparate nella bottega del pittore, e spesso il compito era affidato agli apprendisti; il materiale doveva essere macinato finemente e la polvere ottenuta era conservata in acqua dentro vasetti per poi essere utilizza all’occorrenza (Botticelli, 2008, p.28).

A differenza della tecnica appena descritta quella definita “a mezzo fresco” prevedeva solitamente che le coloriture di base venissero realizzate su intonaco ancora umido, mentre le finiture venivano realizzate a intonaco asciutto con pigmenti stemperati in bianco di calce, detto anche bianco Sangiovanni. Proprio intorno all’impiego di questo bianco, descritto già dal Cennino Cennini alla fine del Trecento, si è aperto, da alcuni anni, un interessante dibattito circa la sua duplice funzione di pigmento e di legante a base di idrato di Calcio, capace di dare avvio a un parziale processo di carbonatazione molto simile a quello della tecnica ad affresco (Appolonia, 1984, pp. 62-74). La fondamentale differenza rispetto all’affresco consiste nel grado di carbonatazione della malta pittorica. Questa caratteristica implica che, mentre nel buon fresco la calce funge prima da supporto e, una volta carbonatata anche da legante, in quella a mezzo fresco essa costituisce il medium ed il legante del colore ma non il supporto, che risulta invece un intonaco oramai con quantità di calci minime. (Germani, 2007, pp. 81-85).

La terza tipologia, definita “a secco”, si aveva quando i colori venivano mescolati con leganti proteici e/o oleosi (leganti organici) e stesi su un intonaco che aveva completato la carbonatazione, quindi “secco”. Il supporto a differenza della pittura ad affresco doveva presentare una porosità e un’assorbenza molto contenuta. In passato per ridurre la porosità dell’intonaco l’artista era solito impiegare due espedienti: il primo prevedeva l’utilizzo di un impasto per l’intonaco con granulometria molto fine, mentre il secondo prevedeva di impregnare la superficie con una “mestica” che aveva la funzione di isolare la superficie e accogliere le successive stesure pittoriche. Questa tecnica, tendenzialmente meno duratura delle precedenti, aveva tuttavia il pregio di aumentare la gamma cromatica concessa, permettendo così l’impiego di pigmenti e coloranti, non utilizzabili nella pittura ad affresco a causa della causticità della calce. 

Più spesso del previsto però poteva accadere che queste tecniche, che nelle fonti vengono sempre differenziate e trattate separatamente, nella pratica potevano mescolarsi e combinarsi tra loro dando origine alla così detta “tecnica mista” che, come anticipato, prevedeva la commistione di più tecniche, liberamente usate dall’artista, uscendo da schemi predefiniti.

 

Uno sguardo ravvicinato alle opere del territorio

 

Se vogliamo comprendere meglio quanto raccontato nel precedente paragrafo non dobbiamo per forza guardare i famosi cicli di Assisi, Roma o Firenze, ma possiamo trovare esempi rappresentativi di pittura murale anche nei territori del ponente ligure.

Invitandovi a diventare turisti appassionati delle vostre città vorrei segnalarvi brevemente alcune pitture murali, di recente restauro, dov’è possibile osservare alcune delle caratteristiche tecniche appena trattate. 

Tralasciando gli aspetti puramente stilistici e storici desidero porre la vostra attenzione sulla materia che costituisce alcune opere del nostro patrimonio regionale, partendo dalle pitture murali tardo trecentesche, ritrovate nel 2018, della Chiesa di San Bartolomeo a Zuccarello. Queste pitture, per lungo tempo occultate sotto uno spesso strato di intonaco dipinto, dovevano certamente far parte di un complesso ciclo pittorico che andava a decorare la chiesa nella sua totalità. I lavori di restauro hanno messo in luce tre riquadri raffiguranti un San Rocco – navata destra – un Sant’Antonio Abate e una Santa Caterina – navata sinistra. (fig.2-3-4) Le pitture sono realizzate principalmente ad affresco con alcune rifiniture dei volti e delle vesti date a latte di calce. Ogni figura è realizzata in un’unica porzione d’intonaco. La frammentarietà del ciclo non permette di chiarire con certezza se si tratti di pitture realizzate a “giornate” o a “pontate”, tuttavia, l’andamento dei riquadri e la totale assenza di punti di giunzione degli intonaci ritrovati potrebbe far propendere per la seconda tipologia di stesura. L’analisi delle malte ha permesso di individuare ameno due strati sottostanti al “velo” pittorico, con granulometrie differenti. Le superfici molto lisce e compatte mostravano in radenza i segni della cazzuola che, premuta sulla malta umida, aveva la duplice funzione di levigare l’intonaco come uno specchio e richiamare l’acqua dell’arriccio in superficie, prolungando i tempi di asciugatura. Lo stile esecutivo e la stesura delle campiture sono molto simile nel San Rocco e nella Santa Caterina (fig.5-6), mentre si differenzia nel Sant’Antonio Abate (fig.7), facendo ipotizzare la presenza di almeno due mani differenti. L’intervento di più maestri era un aspetto del tutto normale all’interno dei cantieri di pittura murale dell’epoca. Le fonti ci raccontano di una precisa distinzione dei compiti all’interno delle botteghe artistiche dove il Magister era solo uno dei tanti attori che partecipavano alla creazione dell’opera d’arte (Zanardi, 2002, p. 52). 

La tavolozza impiegata è semplice, e tipicamente in linea con i materiali minerali tradizionalmente usati nella pittura ad affresco: ossidi di ferro, carbonati, silicati danno origine a campiture rosse, verdi, gialle e nere, che dominano, con diverse modulazioni tutti e tre i riquadri. Non è visibile a occhio nudo nessun segno di incisione o spolvero per il riporto del disegno preparatorio; tuttavia, nell’aureola della Santa Canterina e in alcune modanature delle cornici è visibile traccia di un disegno in punta di pennello che va a delimitare architetture e geometrie.

Restando sempre nell’entroterra ingauno troviamo, in un lembo di pianura che dirada verso le colline, l’Oratorio dei Santi Giacomo e Filippo a Salea d’Albenga. I recenti interventi di restauro (agosto 2023) hanno svelato, sotto uno spesso strato di scialbo, la presenza di due cicli pittorici sovrapposti. Quello recuperato, databile intorno al primo quarto del Cinquecento e conservato sulla parete destra dell’Oratorio, rappresenta una grossa Crocefissione di Cristo sul monte Calvario, animata da un gran numero di personaggi che assistono all’accadimento sacro. (fig.8) I restauri hanno per il momento liberato soltanto la parete di destra, mentre la contro facciata e quella di sinistra sono ancora coperte da una compatta scialbatura a calce. Durante il restauro sono emersi interessanti dettagli del processo esecutivo. La tecnica principalmente impiegata è quella a “mezzo fresco”. Le stesure di fondo e le ampie campiture cromatiche sono state realizzate su un intonaco ancora non carbonatato ma, gran parte brano pittorico è realizzato stemperando i colori nel latte di calce. La matericità di alcune pennellate come, per esempio, le lacrime in rilievo che segnano i volti del gruppo sacro sono uno dei tanti esempi di questa modalità operativa. (Fig. 9) La stesura dell’intonaco è avvenuta per “giornate”, sono infatti ben visibili almeno cinque sovrapposizioni di intonaco in successione con margini tagliati a “scarpa”. (Fig.10) Le superfici non sono perfettamente regolari, e l’intonaco nella parte alta è molto liscio e levigato mentre spostandosi verso il basso la superficie si fa più ruvida, irregolare e materica. È curioso notare che alcune porzioni di disegno, come per esempio il vessillo romano e le lance, non combaciano perfettamente tra giornata superiore e quella inferiore; questo farebbe ipotizzare, anche in questo caso, la presenza di almeno due artisti diversi che lavoravano contemporaneamente sullo stesso ciclo. Nella parte alta dove la stesura pittorica è molto impoverita è possibile intravedere sull’intonaco delle linee perpendicolari e parallele disegnate a grafite che, formando quasi una griglia, vanno a delineare gli spazi, aiutando l’artista a orientare la composizione. (Fig. 11) 

È interessante poi notare la compresenza delle due differenti tecniche di riporto del disegno: nel piede, nella gamba e nel perizoma del ladrone è ben visibile, anche a occhio nudo, la tecnica del riporto tramite spolvero, mentre le figure in basso, i cavalieri e il gruppo sacro, sono stati riportati tramite la tecnica dell’incisione. (Fig.12-13) Anche in questo caso la tavolozza è abbastanza semplice, in linea con i dettami della tradizione. 

Spostandoci verso la costa, vorrei concludere questa panoramica con un dipinto murale conservato nella piccola Chiesa della Carità di Alassio, raffigurante San Giovanni e la Vergine addolorata (Fig.14), che, facendo da fondale al meraviglioso Cristo Quattrocentesco di recente restauro, completano l’altare laterale destro. Vi segnalo quest’opera non tanto per il suo valore storico-artistico ma piuttosto per la peculiarità della sua tecnica esecutiva, rappresentativa della terza e ultima categoria descritta: quella dei dipinti realizzati a secco o a tecnica mista. La pittura, databile intorno alla fine del XVIII sec., presenta una stesura di fondo tipica dell’affresco ritardato o a bianco di calce (Procacci, 1973, p. 33) dove la carbonatazione, avvenendo all’interno della pennellata, risulta più superficiale rispetto all’affresco tradizionale. Per favorire un miglior appiglio del colore al supporto, l’intonaco non è stato steso perfettamente liscio, ma anzi ruvido e scabroso, in modo da costituire una sorta di “arriccio” che fornisce maggiore aderenza ai pigmenti. Questa procedura viene chiamata “granitura” dell’intonaco, dove con un pennello umido vengono portati in superficie i granelli di sabbia contenuti nella malta. (Fig.15) Tutte le finiture, lumeggiature delle vesti e delle aureole, paesaggio sullo sfondo, nuvole e coloriture dei volti, sono state invece realizzate totalmente a secco impiegando con molta probabilità leganti organici e grassello addizionato. Si nota una scarsa attenzione nella preparazione dell’intonaco, eccessivamente “magro”, ossia povero di calce, di spessore molto contenuto e disomogeneo.  Gli unici segni di riporto del disegno, esclusivamente per incisione, si trovano in prossimità del manto del San Giovanni dove alcune linee indicano l’andamento delle pieghe del tessuto. La gamma cromatica è più vasta rispetto alle pitture analizzate in precedenza; azzurri, rosa, tonalità violacee e gialli accesi illuminano con contrasti vivaci l’intera composizione. (Fig.16)

Mentre dei grandi cicli pittorici conosciamo oramai tutto o quasi, le difficoltà di comprensione delle vicende storico critiche ed artistiche delle opere così dette “minori”, a causa della quasi totale assenza di fonti certe, rendono sempre più complicato, se non a volte impossibile, avere un quadro chiaro sulle procedure e sugli artisti che le hanno realizzate. I contorni si fanno meno netti, il tempo si dilata, tutto sembra meno definito, tuttavia le opere, ci parlano, e a chi sa osservare con attenzione svelano importanti dettagli circa la loro storia conservativa, tecnica e materica.

 

Fig. 1, stratigrafia di un dipinto ad affresco.   

Fig. 2, Zuccarello, Chiesa di San Bartolomeo, San Rocco.

  Fig. 3, Zuccarello, Chiesa di San Bartolomeo, Sant’ Antonio Abate.

Fig. 4, Zuccarello, Chiesa di San Bartolomeo, Santa Caterina.

Fig. 5, Zuccarello, Chiesa di San Bartolomeo, San Rocco.

Fig. 6 Zuccarello, Chiesa di San Bartolomeo, Santa Caterina.

Fig. 7, Zuccarello, Chiesa di San Bartolomeo, Sant’ Antonio Abate.

Fig. 8, Salea, Oratorio dei Santi Giacomo e Filippo, Crocifissione di Cristo sul monte Calvario.

Fig. 9, Particolare delle lacrime in rilievo.

Fig. 10, particolare di giunzione a scarpa di due giornate d’intonaco.

Fig. 11, tracce di quadrettatura sopra all’intonaco.

Fig. 12 segni del riporto del disegno tramite spolvero.

Fig. 13, riporto del disegno tramite incisione.

Fig. 14, Alassio, Chiesa della Carità, Altare destro, San Giovanni e Vergine addolorata.

Fig. 15, particolare delle stesure cromatiche.

Fig. 16, Alassio, Chiesa della Carità, Altare destro, San Giovanni e Vergine addolorata.